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Scheda Rappresentazione: La clemenza di Tito

La clemenza di Tito



di Wolfgang Amadeus Mozart
Opera in due atti cantata in italiano.
Durata 3h. 13min.
Direttore: Harry Bicket
Regia: Jean-pierre Ponnelle


(Opinioni presenti: 1 - Media Voto: 5 Stelle)



Dramma serio per musica in due atti KV 621 di Caterino Mazzolà, da Metastasio

Musica di Wolfgang Amadeus Mozart 1756-1791

Prima rappresentazione: Praga, Teatro Nazionale, 6 settembre 1791

Personaggi - Vocalità
Annio - Soprano
Publio - Basso
Servilia - Soprano
Sesto - Soprano
Tito Vespasiano - Tenore
Vitellia - Soprano



Nell’ultimo anno della sua vita, Mozart ricevette un’importante commissione originariamente destinata a Salieri. In occasione dei festeggiamenti per l’incoronazione a re di Boemia dell’imperatore Leopoldo II, il 20 luglio 1791, i rappresentanti degli stati boemi firmarono con l’impresario Guardasoni un contratto per un’opera celebrativa dell’avvenimento. Sulla base di questa data, sappiamo che Mozart, all’epoca a buon punto della composizione delFlauto magico, poté cominciare il lavoro quasi a ridosso della prima rappresentazione, prevista per il 6 settembre. Per il titolo del dramma la scelta cadde su uno dei più celebrati testi mestastasiani, scritto nel 1734 sempre per una festività della corte di Vienna (all’epoca il sovrano cui si alludeva con il personaggio di Tito era l’imperatore Carlo VI, padre di Maria Teresa).

Atto primo
Vitellia, figlia del deposto predecessore di Tito Vespasiano, progetta di vendicarsi contro l’imperatore (che pure l’affascina) armando contro di lui la mano del proprio spasimante Sesto che, se l’ama veramente, dovrà dimostrarlo uccidendo il monarca (“Come ti piace, imponi”). Giunge Annio, annunciando che le progettate nozze tra Tito e Berenice sono rimandate. Vitellia, rincuorata, chiede a Sesto di sospendere il piano omicida (“Deh, se piacer mi vuoi”). Sesto promette intanto all’amico Annio la mano di sua sorella Servilia (“Deh, prendi un dolce amplesso”). Nel Foro romano si raduna il popolo con il senato e i legati delle province dell’impero (marcia e coro “Serbate, oh dèi custodi”). Tito, congedato il popolo, rivela a Sesto che intende sposare Servilia, elevando così l’amico alla più alta dignità (“Del più sublime soglio”). Ad Annio non resta che avvisare Servilia del triste destino del loro amore (“Ah, perdona al primo affetto”). Nella dimora imperiale sul colle Palatino, Tito riceve la visita di Servilia, che gli rivela il proprio legame con Annio: senza esitazione, l’imperatore decide di non imporre la propria volontà alla ragazza, e ne loda la sincerità (“Ah, se fosse intorno al trono”). Vitellia, ignara dell’ultima decisione di Tito, convince Sesto a eseguire finalmente la vendetta (“Parto: ma tu, ben mio”). Questi ha appena lasciato la scena, quando Publio annuncia a Vitellia che Tito l’ha chiesta in sposa (“Vengo... aspettate... Sesto”). Intanto, presso il Campidoglio, Sesto è lacerato dal rimorso per l’azione intrapresa. Ma è troppo tardi ormai: il Campidoglio è già avvolto dalle fiamme e infuria un tumulto armato, secondo gli ordini da lui impartiti (“Oh dèi, che smania è questa”, “Deh conservate, oh dèi”). Quando Vitellia, che lo cerca disperata, riuscirà a trovare Sesto, questi avrà già accoltellato Tito.

Atto secondo
L’imperatore però non è morto. Sesto ha colpito un altro al suo posto. Ad Annio, che gli porta questa notizia, Sesto rivela di essere l’autore della congiura. L’amico lo esorta a non confessare, ma piuttosto a espiare il delitto con «replicate prove di fedeltà» all’imperatore (“Torna di Tito a lato”). Ma Sesto è stato ugualmente scoperto come autore della congiura: Publio giunge con la scorta armata per arrestarlo e condurlo davanti al senato. Nell’addio a Vitellia si agitano i presentimenti di morte di lui e la paura di lei di venire coinvolta nel giudizio (“Se al volto mai ti senti”). L’imperatore fa il suo ingresso nella sala delle pubbliche udienze, attorniato dai patrizi, dai pretoriani e dal popolo (“Ah, grazie si rendano”). A Tito, impaziente di sapere quale fato il senato abbia riservato a Sesto e incredulo di fronte alle accuse mosse all’amico, Publio fa presente come qualche dubbio sull’infedeltà umana possa essere ragionevole (“Tardi s’avvede”). Il senato ha accertato la colpevolezza di Sesto e l’ha condannato «alle fiere». Al decreto manca solo la firma dell’imperatore. Annio chiede pietà per il futuro cognato (“Tu fosti tradito”), mentre Tito è dibattuto fra atroci dubbi sul da farsi (“Che orror, che tradimento”). Decide allora di convocare Sesto (“Quello di Tito è il volto”) e, con grande dolcezza amicale, cerca di farsi rivelare i motivi del suo gesto. Non ne ottiene tuttavia che un desolato silenzio cui Sesto è costretto suo malgrado per difendere Vitellia: prima di avviarsi al supplizio manifesta a Tito tutta l’angoscia del rimorso (“Deh, per questo istante solo”). L’imperatore, tuttavia, ha deciso di non firmare la condanna, tenendo così fede al suo ideale di sempre, la clemenza (“Se all’impero, amici dèi”). Publio crede che Sesto sia destinato alle fiere, mentre Vitellia teme di essere stata scoperta. Nell’incertezza di questa situazione giunge Servilia a chiedere a Vitellia di intercedere per il fratello (“S’altro che lagrime”). Sconvolta dagli eventi, Vitellia prende una decisione imprevista: confesserà la sua colpevolezza, tentando così di salvare Sesto, benché il gesto le costi la rinuncia al trono imperiale (“Ecco il punto, o Vitellia... Non più di fiori”). Mentre si sta preparando il supplizio, Tito entra in scena accompagnato dal consueto corteo (“Che del Ciel, che degli dèi”). Sta per rivelare il destino scelto per Sesto quando Vitellia s’inginocchia ai suoi piedi confessando la propria colpa. Pur turbato dalla continua scoperta di nuovi nemici della sua persona, ancora una volta Tito decide di elargire a tutti il proprio generoso perdono (“Tu, è ver, m’assolvi Augusto”).

A quasi sessant’anni dalla sua nascita, il libretto di Metastasio non venne assuntosic et simpliciter, ma fu affidato alle cura di Caterino Mazzolà, poeta di corte dell’Elettore di Sassonia. Questi operò, senza dubbio d’intesa con il compositore, in modo che il dramma venisse «ridotto a vera opera», come recita l’annotazione che Mozart appose sul catalogo delle sue opere in data 5 settembre 1791, alla vigilia dell’importante allestimento: sia Mozart, sia il Gluck della riforma, professavano un classicismo in teatro e in musica ben diverso da quello a suo tempo divulgato in tutta Europa da Metastasio. I tempi gloriosi dell’opera seria erano inequivocabilmente trascorsi, e un testo appartenente a quel genere, per quanto splendido, necessitava di radicali ‘restauri’ per poter venire ancora presentato al pubblico. Anche a costo di smarrire, nella riscrittura, l’efficacia di luoghi giustamente famosi, come il recitativo di Tito (III,7) già elogiato da Voltaire, qui ampiamente mutilato, oppure dell’aria “Se mai senti spirarti sul volto”, tanto importante nellaClemenza di Titodi Gluck, ridotta a un terzetto che assicura più fludità all’azione scenica, ma attenua il valore poetico e drammatico dei versi e l’intensità della situazione. Buona parte del congegno drammatico dellaClemenzamozartiana si basa sugliensembles, assenti in Metastasio e introdotti da Mazzolà come un mezzo occorrente a farne un testo per musica più confacente ai tempi. In particolare nel terzetto “Vengo... aspettate... Sesto”, dal sofisticato effetto di ‘straniamento’ ottenuto facendo commentare lo smarrimento di Vitellia dagli altri due personaggi, Publio e Annio, che si esprimono in perfetto linguaggio da opera buffa, esaltando per contrasto l’angoscia della situazione, dipinta dagli archi, lanciati in disegni e tremoli di grande concitazione (Vitellia ha appena saputo di essere stata designata imperatrice, ma Sesto è già partito per uccidere Tito). Estremamente efficace, nella presentazione di sentimenti diversi in corrispondenza di una congiuntura eccezionale, è anche il finale primo, significativamente denominato «quintetto con coro». Comprendendo le ultime quattro scene del primo atto, il concertato viene costruito attraverso il progressivo convenire di tutti i personaggi tranne Tito (del quale, proprio a questo punto del dramma, viene annunziato l’assassinio). L’evento viene così commentato da tutto ilcast, da ciascuno secondo il proprio punto di vista, mentre l’orchestra assicura il collegamento tra le diverse entrate dei personaggi e, con un motivo in ‘ostinato’, sottolinea l’atmosfera di terrore in cui si svolgono i drammatici eventi. La situazione si presenta distinta musicalmente su due piani: da un lato i cinque solisti sul proscenio, in balìa del disorientamento più totale, sullo sfondo invece il coro con le sue inquietanti esclamazioni, ulteriore turbamento per i personaggi che le odono indistintamente («Le grida, ahimè! ch’io sento / Mi fan gelar d’orror»), mentre si scorge in lontananza il Campidoglio devastato dalle fiamme. La natura corale di tutto il quintetto emerge soprattutto dopo l’unica reale cesura del brano, all’altezza di quell’Andante in cui culmina tutto il pezzo, in corrispondenza della notizia della morte dell’imperatore. Il ritmo drammatico rallenta improvvisamente in contrasto con la concitazione dell’Allegro precedente, per mantenersi sospeso sino al calare del sipario, quando l’atto si spegne in un’aura di inquietante mistero.

Concluso dunque con questo taglio moderno il primo atto, l’opera riprende con un recitativo secco, che già dal secondo verso rivela come Tito sia ancora in vita. Scelta drammatica di indubbia efficacia per chi, come i personaggi e gli spettatori con loro, aveva terminato l’atto precedente con la convinzione di una tragedia già consumata. Tito è ancora una volta assente e appare solo alla quarta scena, che lo presenta attorniato da patrizi, pretoriani e popolo nella sala delle udienze. L’ingresso dell’imperatore è salutato da un singolare coro, la cui dolcezza pare intrisa di semplicità popolaresca e come di intenso sentimento religioso. Il secondo atto riserva al personaggio di Sesto molte occasioni di splendore drammatico/musicale. In particolare in due numeri successivi: il terzetto “Quello di Tito è il volto” e l’aria-rondò “Deh, per questo istante solo”. In essi rifulge al meglio l’inventiva melodica di Mozart: così avviene nella seconda sezione (Allegro) del terzetto, nonché per tutta la durata dell’aria. In entrambi i testi viene trattato un unico tema, quello di un’angoscia profonda come la morte: il desiderio di Sesto di morire piuttosto di continuare a dibattersi in tanto turbamento morale. Se però la frase del terzetto «chi more / Non può di più penar» ottiene una prevedibile, intensa intonazione del tutto consona al suo significato, un’affermazione analoga nell’aria, «Tanto affanno soffre un core, / Né si more di dolor?» riceve una veste musicale sconcertante. La melodia da rondò di Sesto fa la sua comparsa da un ‘altrove’ di siderale lontananza, come una voce di quasi metafisica gratuità, estranea a ogni dolore, che pare risolto in un gioco di innocenza primigenia. Un ritorno alle origini vicinissimo a certe atmosfere delFlauto magicoe ad altre melodie del Mozart estremo. La cifra dell’ultimo Mozart si insinua anche nel fascino di altre melodie: come quelle del duetto “Ah, perdona al primo affetto”, che paiono concepite per il timbro vellutato del clarinetto, rappresentazioni evanescenti eppure così intense della nostalgia di un tempo dell’innocenza, fantasma edenico di una felicità umana carissimo alla poetica del compositore. Si notien passantcome i ruoli di Annio e Servilia siano certamente secondari nell’economia del dramma: nella musica di Mozart assurgono invece a una dignità inedita a causa della sincerità dei loro affetti. Annio in particolare vive un momento di gloria anche nel duettino con Sesto “Deh, prendi un dolce amplesso” analogo nel carattere al duetto con Servilia. Una peculiarità del Mozart dell’ultima maniera è rintracciabile pure nella predilezione per alcuni strumenti in auge da un capo all’altro della partitura, ed emergenti soprattutto in taluni momenti-chiave. Il clarinetto solista compare nel momento in cui il piano per uccidere Tito entra in azione, cioè nell’addio di Sesto a Vitellia, l’aria “Parto: ma tu, ben mio”. Qui rappresenta la voce più profonda dell’io del personaggio, totalmente dominato dal fascino fatale della bellezza, il suo desiderio inappagato e illusorio dell’amore di Vitellia. Il corno di bassetto, questo ‘fratello’ inquietante del clarinetto, si afferma invece al termine della vicenda, quando Vitellia prende la decisione suprema di sacrificare la sua ambizione: nel rondò “Non più di fiori” lo strumento è immagine dirompente e ossessiva della morte che la protagonista considera ormai il suo destino imminente. In queste pagine, come ha scritto Giovanni Carli Ballola, il corno di bassetto muggisce cupo come il Minotauro del labirinto di Borges, facendo eco, con la sua voce sinistra, all’indugiare continuo della voce nel registro basso (utilizzando tra l’altro una melodia del tutto analoga a quella segnalata dell’aria-rondò di Sesto, spia del pensiero fisso della morte, destino ultimo). Il pezzo si era aperto ben diversamente, in un idillico fa maggiore chiamato a rappresentare la visione beata delle catene di fiori intrecciate da Imene disceso dal cielo. Ma l’Allegro successivo disperde in un baleno ogni traccia della serenità del Larghetto, per lasciar spazio a un’estrema e tremenda icona del clima di tragedia incombente, che ha gravato sull’azione dall’inizio dell’opera. Emergendo da questi abissi, la marcia e coro “Che del Ciel, che degli dèi” (II,24), collegate senza soluzione di continuità con il rondò di Vitellia, si rivelano come una folgorazione. L’incubo della morte, la solitudine e l’angoscia della protagonista, il tetro lamento del corno di bassetto si infrangono contro lo splendore sonoro di un’orchestra addobbata a festa. Lo sfarzo e la grandiosità di quei ritmi puntati, in un’atmosfera da trionfo händeliano, costituiscono la cornice finalmente solenne – ma non vacua – della celebrazione del potere sovrano. Le lodi di Tito, ora intonate dal coro sugli splendidi, raffinati versi metastasiani, occupano questo ultimo squarcio dell’opera, ambientato non a caso in un «luogo magnifico», manifestazione anche spaziale dello splendore imperiale. Il trionfo che ci si appresta a celebrare non è tanto quello di un uomo, ma della sua clemenza, che tutti i complotti del dramma non sono bastati a piegare e che giunge ‘costante’ e vittoriosa all’ultimo traguardo.

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