
Monologo sulla disabilità, lo spettacolo regala l’emozione di un racconto ironico e toccante. Attraverso gli occhi di un piccolo animaletto autobiografico, il pappicio, la protagonista ci conduce dentro il suo mondo per spalancarlo alla rivelazione di un modo inatteso di vivere e guardare la diversità. Lo spettacolo ha ricevuto una menzione speciale al Premio Ustica per il Teatro 2005.

Barbara Apuzzo si racconta nel suo primo e già maturo lavoro teatrale in cui affronta un tema
delicato come quello della disabilità con ironia, rabbia, delicatezza e humour e senza facili
sentimentalismi. Partendo dalla sua vicenda personale tratteggia una satira impietosa della
nostra società, smascherando le debolezze di alcuni miti imperanti nel nostro quotidiano, tra cui
il mito del fitness e la ricerca dell'immagine perfetta del corpo. Nella sua battaglia per
conquistarsi una vita normale e uscire dal suo guscio protettivo, a volte rappresentato anche dal
protezionismo della famiglia, Barbara Apuzzo, nel suo cammino di liberazione, trasforma
l'handicap in un'imprevedibile risorsa teatrale.
Il pappicio (in dialetto napoletano) è un animaletto molto piccolo, nero, con le zampe corte,
lento, insomma un verme, un piccolo verme, lento anche quando mangia. Vive all'interno della
noce e si nutre del frutto. Intanto si rende conto che al di là del suo guscio esiste un mondo. Un
mondo che è sinonimo di libertà, di un "fuori" mai visto. Un fuori che verrà conquistato uscendo
dalla noce, dal suo guscio. Guscio che molto lentamente viene scalfito in più parti, fino ad
essere "spertusato". Quando finalmente questo piccolo verme riesce ad uscire dalla noce, dopo
essersene cibato, dopo aver "rosicato" il guscio, diventa farfalla.
Mi paragono a questo pappicio perché il suo percorso può essere raccontato con ironia. Mi
paragono a questo pappicio perché il mio handicap fisico mi porta spesso a sentirmi in una
gabbia, un guscio... protettivo... ma dal quale prima o poi se ne vuole uscire... e magari chissà,anche ridere del proprio percorso, delle proprie tappe delle proprie difficoltà...
Ho scritto questo testo perché mi interessa sviluppare la relazione tra il concetto tempo/spazio
ed una persona, come me, che ha le sue diversità, i suoi handicap fisici. Da questa diversità, da
questo handicap, forse potrebbe uscire un diverso modo di pensare il teatro.
Mi piace ricordare il grande critico de Il Giorno, Ugo Ronfani, che di 'A Noce scrisse: "Arrancare,
sciancata, sapendo che per gli altri si è un patetico clown. Sognare, con in mano un cappello, di
essere un gabbiano che vola alto, un gabbiano nero. Abbrancarsi ad una sedia a rotelle, per
spostarsi come i "normali". Dimenticarsi sulla scena, facendo finta di niente. Prendere in giro
l'handicap, diventando il gabbiano nero".
A distanza di anni queste righe mi commuovono ancora. 'A Noce parla di un piccolo verme che
cerca di bucare il guscio della noce per uscirne, per poi diventare, forse, farfalla. 'A noce parla
di me, che nelle mie lotte per conquistare la libertà di essere umano, e non solo di portatrice di
handicap, tanto simile mi son sentita a quel piccolo verme, che dice alla noce "Damm' 'o tiempo
ca te spertoso". Ma quel verme poi è riuscito a diventare una farfalla, o forse, come diceva il
buon caro Ugo...un gabbiano nero.
Ed allora la noce è stata spertosata.